Three Degrees, il calcio a ritmo di musica soul nell’arena dei Leoni

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Torniamo a parlare di calcio e di musica, nello specifico di soul, di West Bromwich Albion e dei Three Degrees.

Ci è stato segnalato questo articolo favoloso, da Francesco e, per una volta, abbiamo deciso di riproporre integralmente un testo di un altro sito. E’chiaramente un fatto raro dettato dalla stima che proviamo e la conoscenza che attribuiamo al sito Rovesciate – il dodicesimo uomo nel calcio – ed all’autore dell’articolo Enrico Camanzi; si tratta, come specificato nel sito in questione, di un amante della soul music, la Guinness e tante altre peculiarità britanniche.

 

Buona lettura.

Gennaio 1978. La Gran Bretagna, dieci anni fa, ha scoperto il razzismo della porta accanto. Ha il volto da vecchio gentiluomo di campagna di Enoch Powell, deputato conservatore delle Midlands. Nel discorso passato alla storia come il “Rivers of blood speech” ha sdoganato le paure xenofobe della piccola borghesia inglese. Le lugubri paranoie di contaminazione del sangue britannico e le profezie allucinate su una nazione in cui, tempo quindici anni, i neri terranno sotto scacco i bianchi fanno presa nelle villette monofamiliari in mattoni fra Birmingham, Wolverhampton, Walsall, Coventry, Stoke e altre città ad alta densità migratoria.
Anche West Bromwich, 90mila abitanti circa, ospita folte comunità di immigrati. Arabi, sikh, pakistani, afrocaraibici. I tempi d’oro del West Bromwich Albion, il club locale di football, risalgono a una decina d’anni prima. Tra il 1966 e il 1970, infatti, i Baggies guidati dal centravanti Jeff Astle hanno messo in bacheca una FA Cup e una Coppa di Lega, a cui vanno aggiunte altre due finali, sempre in Coppa di Lega. Successi offuscati da una retrocessione in Seconda divisione nel 1973. Tornato al piano di sopra, grazie anche alla grinta dell’ex dirty Leeds Johnny Giles, arruolato come player manager, l’Albion ha costruito una squadra rampante. Le stelle sono Bryan Robson, il futuro capitano della nazionale dei Three Lions, nato terzino sinistro pronto a spolmonarsi su e giù per la fascia ed evolutosi come centrocampista cuor di leone e, soprattutto, una coppia di giovani afrocaraibici, appena sbarcata nel Black Country. Laurie Cunnigham, funambolica ala con la passione per il ballo, classe sopraffina e carattere istrionico, è arrivato dal Leyton Orient, squadra londinese dove si è fatto notare per giocate ai limiti dell’impossibile ma anche per una certa idiosincrasia a regole e orari. Cyrille Regis, nato nella Guyana francese e cresciuto a Londra dove la famiglia si è trasferita negli anni ’60, ha indossato la maglia biancoblù dopo un paio di anni nei campionati minori, conditi da caterve di gol e decine di conquiste fra le tifose che affollano i campetti di Athenian e Isthmian league.

In panchina siede, da pochissimo, Ron Atkinson, ex monumento dell’Oxford United, reduce da una promozione in Terza divisione con il Cambridge United, mollato in piena lotta per uno storico doppio salto nel momento in cui arriva la chiamata da West Bromwich. La prima mossa di Big Ron è una pugnalata alle spalle della società che l’ha lanciato. Gli U’s vengono scippati del loro capitano, il versatile terzino Brendon Batson. Originario delle isole dei Caraibi come Cunningham e Regis, nella scalata del Cambridge United ha sfoderato impressionanti doti di fiato e carisma. In maglia giallonera ha già dovuto fare i conti con le sbandate razziste di alcuni avversari. «Sono stato espulso tre volte in carriera – racconterà in futuro – Due quando giocavo nel Cambdrige, contro lo stesso giocatore. In entrambi i casi mi insultò per il colore della mia pelle e io reagii. Fu Ron Atkinson a consigliare di darmi una calmata». Gli incidenti di percorso non gli hanno impedito di mettersi in luce come uno dei più promettenti difensori esterni della Gran Bretagna, nonostante a scuola gli avessero pronosticato un futuro luminoso nel cricket. Batson, Cunningham, Regis.
Voilà, il trio è composto. In uno sport che per i terzetti (dal Gre-No-Li svedese fino al Ma-Gi-Ca napoletano, passando per il Didì-Vavà-Pelè verdeoro e il Sarti-Burgnich-Facchetti di nerazzurra memoria) ha provato sempre una certa fascinazione. La prima mezza stagione è di assestamento. I ragazzi mettono in mostra i primi colpi del loro campionario. Nel campionato successivo esplodono. E, in parallelo alla loro affermazione, le tribune degli stadi inglesi eruttano tutto l’odio di cui si può essere capaci di fronte a tre giocatori belli, forti, intelligenti e neri. Sono i mesi della crescita impetuosa del National Front, il partito di estrema destra fascistoide e apertamente razzista fondato dieci anni prima. Nel 1976, alle elezioni amministrative, sono arrivati successi importanti a Sandwell, proprio nelle West Midlands (27,5%) e nella più grande Leicester (20%). I dirigenti della formazione cercano di fare proselitismo fuori dagli stadi, agli ingressi dei settori popolari. “Keep football white”, scrivono sui loro stendardi. Alcune tifoserie virano paurosamente a destra. Il morbo contagia, qua e là, tutto il Paese. Londra, nelle zone più in targate Chelsea così come in quelle proletarie dominio di West Ham e Millwall, ma anche il Nord, da Manchester fino a Newcastle. I tre gioielli del West Bromwich Albion sono bersagliati costantemente da cori di scherno e insulti razzisti. Quando va bene. Già, perché può andare peggio. Batson durante il riscaldamento sulla fascia prima di un match contro il West Ham (ironicamente furono proprio gli Hammers, nel 1972, la prima squadra inglese a schierare tre giocatori di colore nella stessa partita. Clyde Best, Clive Charles e Ade Coker indossarono la casacca “claret and blue” nella sfida vinta contro il Tottenham 2-0) viene sommerso da un fitto lancio di banane. Imperturbabile, quasi quaranta anni prima di Dani Alves (e senza puzza di operazione di marketing), ne raccoglie una, la sbuccia e se la mangia. In un’altra occasione, nuovamente tempestato da decine di proiettili gialli, se ne infilerà uno nei calzoncini. Cunningham, qualche anno prima, in un derby di Londra fra Leyton Orient e Millwall viene sfiorato da un coltello scagliato dagli spalti, episodio che sparirà dal referto dell’arbitro. Regis, invece, nella sua biografia ricorderà così il suo debutto in trasferta sulle rive del Tyne con la maglia del West Bromwich Albion: “A Newcastle si sentivano cori che imitavano i versi delle scimmie ogni volta che toccavamo il pallone”. In altri impianti risuona il canto “Nigger, nigger lick my boots”. Come affrontare queste odiose manifestazioni di intolleranza? Semplice: tappandosi le orecchie e dimostrando quello che si è capaci di fare sul campo. Più i supporter avversari li insultano, più i tre caballeros in biancoblù tagliano a fette le difese delle loro squadre. I Baggies scalano le posizioni. A Natale devono affrontare il Manchester United all’Old Trafford. È una sfida per il primato. Non appena i due team escono dal tunnel, si scatena la solita gazzarra razzista. Anche Gerald Sinstadt, telecronista per l’Itv, non può fare a meno di notarlo nel suo commento. I Red Devils vanno avanti 3-2. Il West Bromwich Albion, però, non molla. Cunningham è sontuoso. Fa impazzire i difensori dello United. Dà il la a quello che sarà ricordato come uno dei migliori gol della stagione, seminando due avversari sui sedici metri e servendo Regis che, di tacco, appoggia per Len Cantello, bravissimo a fulminare il portiere mancuniano. Duetta ancora con Regis e firma il sorpasso. Poi ricambia il favore, regalando all’uomo della Guiana Francese l’opportunità di piantare il chiodo finale, con una rete di una potenza scintillante. Bum: 3-5. Il West Bromwich Albion si candida seriamente a vincere il titolo. Batson, Regis e Cunningham stupiscono anche la platea continentale. È il terzo turno di Coppa Uefa. A Valencia a fare sfracelli è ancora l’ala che, qualche anno prima, con la casacca del Leyton Orient non ha risposto per una settimana alle telefonate del manager George Petchey che gli chiedeva perché non si facesse vedere agli allenamenti («Non rispondevo perché stavo di sopra e il telefono è di sotto», confessò candidamente al boss). Quell’indolenza, ora, sembra finita in soffitta. Non altrettanto si può dire del razzismo dei tifosi. I fan assiepati sulle tribune del Mestalla offrono una curiosa variazione sul tema. Non gettano banane, ma arance. «Carino come cambio di gusto», scherza nelle interviste post-partita Laurie. Naturalmente arrivano le chiamate della Nazionale. Il primo a indossare la maglietta dell’Inghilterra è Cunningham, in un incontro contro il Galles valido per la Home Championship, un’antica competizione che si disputava fra le quattro nazionali del Regno Unito. È la prima volta di un calciatore nero in un match non amichevole.
Poi tocca a Regis. Per le frange xenofobe dei fan di football è troppo. La Nazionale non deve essere “sporcata” da giocatori di colore. Cyrille, il giorno dopo la convocazione, riceve una lettera sigillata. La apre. Dentro c’è una pallottola. E un messaggio. “Se metterai piede sul nostro terreno di Wembley – ha scritto una mano sconosciuta – ti troverai con uno di questi ficcato su per il ginocchio”. Una bella atmosfera. Eppure c’è spazio anche per momenti scanzonati. A West Bromwich Brendon, Laurie e Cyrille sono gli idoli del pubblico. Al terzetto è ispirato il 45 giri reggae “Oh West Bromwich Albion”, cantato da Ray King e diffuso dagli altoparlanti prima all’ingresso in campo al the Hawthorns, lo stadio dei Baggies. Cunningham, in particolare, è un grande appassionato di musica soul e, in gioventù, ha partecipato con regolarità a concorsi di danza. Quando indossava la maglietta del Leyton Orient, con il denaro vinto in quelle competizioni, si è pagato decine di multe affibbiategli per i ritardi agli allenamenti. «Ha una classe così sopraffina – dice di lui Ron Atkinson – che non lascerebbe orme a camminare sulla neve». Big Ron, manager vulcanico che prima di tutti ha intuito la possibilità di trasformare i calciatori in personaggi glamour (a fine anni ’80 siederà sulla panchina dell’Atletico Madrid guidato dal ruspante Jesus Gil Y Gil, più avanti addirittura parteciperà al reality show Celebriy wife swap e sarà al centro di un esperimento sul docusport con Big Ron Manager, programma in cui vengono riprese le sue imprese come consulente del Peterborough United), fiuta il potenziale fuori dal campo dei tre afrocaraibici.
Una sera è con loro all’inaugurazione del night club aperto da Andy Gray, attaccante dell’Aston Villa. Ci sono anche le Three Degrees, gruppo di punta del suadente soul Philadelphia style, assai apprezzato anche in Inghilterra (dove in quegli anni, proprio con epicentro fra Midlands e Nord sta bruciando la fiamma del Northern Soul, una scena radicalmente underground frequentata da centinaia di ragazzi infoiati, capaci di ballare fino alla mattina al suono di oscuri 45 giri della musica nera Usa anni ’60). L’associazione d’idee è fulminea. Batson, Cunningham e Regis vengono ribattezzati subito i Three Degrees. Atkinson fa di più. Contatta la band e la invita all’allenamento. L’occasione per i fotografi è ghiotta. Le Three Degrees e i Three Degrees. Le tre stelle del Philly sound indossano la casacca del WBA e posano abbracciate ai loro “omonimi”. Sembra lo scatto giusto per la copertina di un ideale annuario che celebri il primo titolo dei Baggies.
E invece il lieto fine va a pallino. Con il freddo l’ispirazione della squadra si congela. Le aspirazioni di primato cozzano contro i rigori di uno degli inverni più rigidi che la Gran Bretagna ricordi. Decine di partite vengono rimandate. Il WBA è particolarmente penalizzato. Un po’ perché i suoi ballerini faticano su campacci trasformati in lastre di ghiaccio. Un po’ perché, fra slittamenti e rinvii, si trova a giocare undici partite in 25 giorni. I Baggies perdono contatto con la testa della classifica. Chiudono terzi, dietro il Liverpool e il Nottingham Forest di Brian Clough, campione d’Europa. In Coppa Uefa non va meglio. Nei quarti di finale il gol di Regis, presto pareggiato, non basta a raddrizzare la sconfitta dell’andata contro la Stella Rossa. Fine del sogno. E fine dei Three Degrees. Dalla Spagna arriva la classica offerta che non si può rifiutare. Il Real Madrid, non ancora galactico ma pur sempre una potenza del calcio europeo, si dice disposto a spendere 950mila sterline per Cunningham. L’affare si fa. Laurie sbarca nella capitale per indossare la camiseta blanca adorata anche dal caudillo Francisco Franco, appena deposto. In Spagna, a fine anni ’70, sta muovendo i primi faticosissimi passi una fragile democrazia. E si vede. L’ala che iniziò la sua carriera nell’Arsenal deve affrontare anche l’ostilità dei compagni di squadra, diffidenti verso quello che dai giornali viene ribattezzato “El negro de Los blancos”. Si trova quasi a rimpiangere la colonna sonora di insulti razzisti degli stadi inglesi. In allenamento è una guerra fra lui e il resto delle merengues. In un’intervista alla tv britannica, durante la sua esperienza iberica, Cunningham mostra la gamba sinistra. Brilla sulla pelle una cicatrice di una ventina di centimetri, circondata da un arcipelago di lividi. «Quello più grosso – dice al giornalista – me lo sono fatto in allenamento, quando uno dei miei compagni mi ha colpito la gamba per fermarmi. Le ferite più piccole sono le botte che mi hanno rifilato gli altri giocatori mentre tentavo di rialzarmi». Esagerazioni? Chissà. Di certo, nonostante lo scudetto centrato al primo tentativo e una grande semifinale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo di Kevin Keegan, Cunningham non si senta a suo agio con il Madrid. «Aveva il potenziale per essere un grandissimo – ricorda Vicente del Bosque, suo compagno di squadra di allora – ma gli mancava lo spirito competitivo che serve al Real Madrid». Gli infortuni, poi, lo bersagliano. Resta al Bernabeu fino al 1984, ma sono di più le partite viste in tribuna di quelle giocate. Inizia a girare il mondo, ma serpentine e scatti sono sempre meno brucianti. Manchester United – di nuovo con Atkinson – Sporting Gjion, Marsiglia, Leicester City, il ritorno a Madrid con il Rayo Vallecano. Nell’88 è di nuovo in Inghilterra per aiutare – lui, l’elegantone amante della musica e della moda che parlava spagnolo senza problemi – la crazy gang del Wimbledon, un manipolo di brutti, sporchi e cattivi, a vincere una sorprendente FA Cup in finale contro il Liverpool. Il vagabondaggio, però, è la sua cifra. Fa rotta di nuovo su Madrid, ancora sponda Rayo. Segna la rete che consente ai Franjirrojos di tornare nella Liga. L’ennesimo nuovo inizio? No. La mattina del 15 luglio 1989 la libellula che svolazzava sulle teste degli avversari in campo finisce la sua corsa in un incidente stradale. Ha 33 anni. Sette anni prima l’ex compagno Batson ha chiuso la carriera, in seguito a un gravissimo infortunio. L’uomo che si faceva beffe degli scimmioni da stadio si reinventa come dirigente della Professional footballers’ association , il sindacato dei calciatori inglesi. In quella veste continua, ancora oggi, a combattere il razzismo. «Quando ero nel WBA – ha ricordato in più di un’occasione – ai tifosi era consentito di gridarci i loro insulti impunemente. Così in tanti, non solo fra i neri, preferivano non venire allo stadio, nauseati da queste manifestazioni di intolleranza. Oggi credo che il razzismo non sparirà mai del tutto, però dovremmo essere orgogliosi dei passi avanti fatti negli anni sul piano dell’integrazione. Abbiamo fatto enormi progressi, ma non possiamo calare la guardia». Sul campo, dopo lo scioglimento dei Three Degrees, i successi più luminosi li ottiene Regis. Nell’84 lascia nella disperazione i supporter dei Baggies, trasferendosi al Coventry City. Al the Hawthorns è un idolo assoluto, ma non è riuscito a vincere nulla. Con gli Sky Blues, qualche chilometro più in là, conquista un’incredibile FA Cup nel 1987.
In finale con il Tottenham il Coventry parte nettamente sfavorito. Davanti ai 98mila di Wembley, però, i ragazzi guidati da George Curtis rimontano per due volte gli Spurs e ai supplementari trovano il gol (o, meglio, l’autogol) decisivo quando un cross di Lloyd McGrath viene deviato nella propria porta dal difensore londinese Gary Mabbutt. “Non sono molti i giocatori che possono dire di aver giocato una finale di coppa – ricorda Cyrille – Vincerne una con un club come il Coventry è stato assolutamente fantastico”. Nel ’91 Regis torna nelle Midlands, all’Aston Villa, dove si riunisce a Ron Atkinson. Il WBA fine anni ’70, con tre ragazzi di colore in squadra era una rarità. Dieci anni più tardi, nei Villans di Big Ron, il rapporto si è capovolto. Fra i titolari ci sono solo due bianchi, il portiere Mark Bosnich e il centrale difensivo Shaune Teale. Qualche tifoso non gradisce. Spuntano cartoline con la foto della squadra su cui mani anonime hanno scritto “Aston Nigger”. Fiammate perverse di un virus che non ne vuole sapere di sbollire. A Birmingham Regis, ormai 33enne, inizia in grande stile. Finisce la prima stagione con 11 reti. L’anno successivo è messo in un cantone dall’esplosione di Dean Saunders. Si trasferisce ai Wolves, storici rivali del West Bromwich Albion e trova il modo di farsi apprezzare anche in gold and black. Spara le ultime cartucce nelle leghe minori con Wycombe Wanderers e Chester City. Chiude a 38 anni, sette anni dopo la morte dell’amico Cunningham. Il dramma dell’ex compagno di squadra e la morte vista in faccia, anche lui per un incidente, lo hanno cambiato. Ha abbracciato la religione cattolica e si è messo alle spalle qualche problema con l’alcol. Lavora come agente di altri calciatori, fra i quali il nipote Jason Roberts. Nel 2007, insieme alla seconda moglie Julia ha visitato l’Etiopia nell’ambito del progetto WaterAid. Ha avuto parole di comprensione anche per lo scivolone razzista del suo mentore Ron Atkinson, finito sulla graticola dopo aver definito Marcel Desailly, durante una telecronaca del Chelsea, “quello che in certe scuole è conosciuto come un fottuto pigro negro”. «Lo conosco da anni – disse, invitato a commentare l’accaduto – Ho giocato per lui, ho bevuto con lui, mi sono fatto un sacco di risate con lui. Ha detto una cosa orribile. Devo dimenticarmi tutti i bei ricordi che mi uniscono a lui per una cosa del genere? Con tutti gli errori che ho commesso nella mia vita, sono l’ultima persona che lo può giudicare». Il West Bromwich Albion ha deciso di rendere eterna la memoria dei Three Degrees. Il 15 luglio, nel venticinquesimo anniversario della morte di Laurie Cunningham, verrà scoperta una statua dedicata al terzetto che faceva cantare il pallone e ballare gli avversari.
“Batson, Cunningham e Regis were part of a pop-star culture. Big Ron created a footballing band that got on stage every saturday”. Phil Vasili, storico del football.

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